[…] ogni donna per essere vista deve trasformarsi in una ragazza.

Durante il mio 2024 sono stati pochi i libri letti che mi hanno fatta sentire come quello di Sara Marzullo. E non lo dico perché lei è la mia terza Promessa, ma lei è la mia terza promessa proprio per questo motivo.

Mi trovo attualmente in una fase molto particolare della mia vita, un momento di passaggio. 

Fino a meno di un anno fa ero ancora una studentessa che, ammaliata dal mondo del lavoro, riponeva tutta la sua speranza in un settore che solo ora mi rendo conto essere difficilmente penetrabile. Nessuno mi aveva preparata al fatto che l’editoria fosse elitaria. Non è sufficiente studiare, essere appassionati e laurearsi nei tempi giusti. Serve avere una buona dose di fortuna, caparbietà, determinazione, e almeno un paio di amici per tirarsi su nei momenti difficili.

Ora è passato un po’ di tempo e alla me studentessa ricordo la strada che ho percorso, i meandri dentro cui sono passata, l’infinità di cose che ho imparato – e che pensavo non sarei mai stata in grado di immagazzinare perché, si sa, vogliamo tutto e subito – e ciò che di magico e inaspettato si sta innalzando davanti a me.

C’è una parte del mio libro preferito in cui, parlando di un amore finito, il protagonista fantastica su che forme avrà il suo prossimo uomo. Nel tempo è diventato il mio piccolo e silenzioso mantra: non si può far altro che immaginarselo il futuro e, anche se ci provi, non vedrai mai per davvero quello che ti aspetta. Nel frattempo puoi studiare studiare studiare, prepararti all’arrivo di quell’amore, cosicché tu, a prescindere dalle sue sembianze, ti farai trovare pronto.

Sara Marzullo, decisamente in maniera inconsapevole, ha contribuito non solo al mio studio e alla mia formazione, ma mi ha dato anche una carezza, non mi ha lasciata sola, sia durante le lunghe ore di autobus che percorrevo per andare a lavoro, sia in un mondo in cui troppo poco spesso ci ricordiamo che c’è o ci può essere qualcuno che ti tiene la mano.

Sad Girl. La ragazza come teoria (66thand2nd, 176pp., 16 euro) esce per la prima volta a gennaio 2024.

Il libro esplora il mondo delle ragazze tristi, identità che molte si trovano ad assumere quando non riescono a dare voce alla loro malinconia. Tra citazioni di poetesse, opere come Le vergini suicide e Ragazze interrotte, l’autrice analizza come la cultura contemporanea, attraverso pop star e stereotipi, riduca le ragazze a oggetti del desiderio passivo, ma ci invita anche a riflettere su come possiamo ribaltare questa visione, liberandoci dal ruolo che ci è stato imposto.

Come nasce la tua carriera da scrittrice, fino poi ad arrivare a questo libro?

Ho iniziato a scrivere sulle riviste quando avevo diciannove anni circa, all’inizio dell’università. E quasi da subito mi sono dedicata ai libri. Crescendo poi, ho iniziato a partecipare più attivamente al lavoro culturale, non solo italiano ma anche anglosassone, che avevo osservato fino a quel momento solo da lettrice, e ho notato qualcosa di molto importante a partire dagli anni Dieci. In particolare, con l’esplosione dei blog, dei magazine e dei personal essay sono iniziate a emergere nuove forme di scrittura,– vorrei ricordare Abbiamo le prove di Violetta Bellocchio, che ha dato spazio a nuove scrittrici, alcune delle quali ora sono diventate famose. Mi ricordo quello come un ambiente sicuro, forse anche un po’ chiuso e insulare. Poi ho visto diventare quel tipo di scrittura personal mainstream.

Quindi Sad Girl nasce dall’intersezione di due interessi: uno che ha a che fare con la critica letteraria, e uno con l’uso della prima persona, soprattutto da giovani donne o soggettività marginalizzate. E, mettendo queste cose insieme, volevo provare a fare un passo in avanti e concretizzare tutto ciò che avevo osservato e studiato fino a quel momento.

La tua è una forma saggistica ma allo stesso tempo molto personale. Tra i temi più importanti emerge prima di tutto la comunità virtuale e la scrittura del sé. Perché pensi che le due cose ti tocchino come critica e autrice? In che modo credi si possano incrociare?

Quando ho deciso di iniziare a scrivere volevo che fosse un vero e proprio studio sul genere. Genere sia inteso come genere letterario, che come genere femminile e maschile. E ho deciso di provare una strada diversa rispetto al classico modo di intendere la saggistica – che usa una terza persona distaccata – usando la prima persona, una scelta per me molto importante in questo contesto. La storia mi tocca, quindi usare la prima persona mi implica e il modo in cui ne esco non è sempre positivo. Ho una forte opinione su alcuni temi e usare la prima persona mi ha permesso di avere delle posizioni più ambivalenti.

Quando critico una modalità di scrittura del sé lo faccio nella misura in cui oggi molto di quello che leggiamo è “based on a true story” e spesso implica un’ottica branding di se stessi. E avere una posizione solamente antagonista a tutto ciò, secondo me, non era interessante quanto rimanere in quella dell’ambivalenza, anche per spiegare il perché dell’ottima riuscita di certi meccanismi. Mi sembrava molto più naturale provare a fare questo salto.

Mi piace il discorso che fai sulle contaminazioni e a proposito di questo ti devo confessare che dopo aver letto Sad Girl, in particolare il capitolo dedicato alle pop star, sono cascata nel re-listening degli album di Olivia Rodrigo. Perché pensi facciamo così fatica ad abbandonare il mondo della girlhood?

Guardando a queste artiste – Olivia Rodrigo come anche Taylor Swift, che ha pur sempre trentacinque anni – ci pare impensabile un passaggio dalla fase della giovinezza a un’identità adulta.

Il prolungamento della giovinezza è, nella nostra esperienza italiana, legato all’impossibilità di accedere a un’altra esperienza di vita, come la difficoltà di trovare un lavoro, o persino di crearsi una famiglia, elementi che tradizionalmente per noi rappresentano l’accesso all’età adulta, e a cui comunque non riusciamo ad arrivare. Ciò porta a una sorta di celebrazione di quello che invece ci resta, una giovinezza che diventa sempre più lunga. Sembra esserci una ripetitività del presente a discapito di una progressione.

E un altro motivo per cui prevale una totale venerazione nei confronti delle pop star è che le giovani donne sono quanto di più vicino all’incarnazione di tutto ciò che è desiderabile per il mercato. Sono belle, attraenti e hanno nella giovinezza il loro senso di potenzialità, che viene sfruttato, e rappresentano un soggetto politico debole e marginale — politica dalla quale comunque le giovani donne sono ancora tendenzialmente escluse.

Tutto ciò fa sì che, in un’economia legata all’attenzione e in un contesto in cui è possibile monetizzare la propria figura, presentarsi come “ragazze” è ciò di quanto più desiderabile esista. E porta le donne non più in età da “ragazze” a definirsi tali, sia per una difficoltà di progressione esistenziale, sia come rappresentazione nel mercato.

Collegandomi a tematiche che hai trattato nel libro e che mi hanno colpito, volevo dirti che è stato interessantissimo leggere del mondo culturale (e editoriale) italiano e di quanto ne sia difficile l’accesso per una giovane donna. Il capitolo in cui tratti tutto questo mi è sembrato fortemente di denuncia e ti ringrazio perché sono in pochissime a parlarne.

Grazie Clotilde, mi fa molto piacere quello che mi dici. 

Non è chiaramente un segreto che il mondo del lavoro culturale in Italia sia molto mal pagato e sempre più professionalizzato. Questo fa in modo che appartenga sempre di più alla borghesia, perché bisogna potersi permettere di restare in un settore dove non si guadagnerà dal punto di vista economico ma da cui si potrebbe avere un ritorno in termini di capitale sociale e culturale.

È un ambito lavorativo che tende a essere ostile, non tanto per le singole persone, ma per le strutture di potere che ospita, perché, per esempio, è difficile capire chi detiene veramente il potere. È spesso molto informale, e la propria carriera è legata alla capacità di farsi contatti e dunque all’idea di un continuo networking e branding di se stessi, nella speranza che qualcosa funzioni.

L’idea di curare le relazioni, però, tende a essere qualcosa che fa parte dell’educazione femminile e penso che questo possa produrre una serie di fraintendimenti tra la seduzione intellettuale e quella che invece appartiene a un ambito diverso. Non si capisce più cosa si sta vendendo.

Dunque sì, mi sembrava un argomento importante, anche perché poi le cosiddette soft skills, oggi molto apprezzate, quali flessibilità, essere multitasking o saper gestire le relazioni vengono da sempre legate all’educazione femminile.

Quali sono, quindi, sulla base di quello che ci siamo dette, i nuovi progetti a cui stai lavorando?

Posso dire che sto lavorando a un progetto che parte da alcune cose che ho scritto in Sad Girl e che si muove da lì verso la volontà di rispondere a una domanda ambiziosa, che in un certo senso è legata a cosa è una donna. Scrivendo il libro mi sono resa conto che le ragazze tristi si identificavano in modo eccessivo in caratteri che consideriamo fortemente femminili, quali l’emotività, la bellezza eterea o la forte impotenza e incapacità di agire. 

Ma ho anche notato che si “impara” a diventare sad girls, e mi sono chiesta: com’è che la apprendiamo questa femminilità? Dove la vediamo? Penso alle amicizie e ai rituali in cui ci si prepara insieme prima di uscire. Sembra che ci sia sempre qualcosa che dobbiamo mantenere e continuare a produrre. E tali produzioni pare che abbiano un effetto rassicurante, sia su noi che sugli altri. Insomma, chiunque differisca dagli ideali di donna – e lo abbiamo visto alle recenti olimpiadi – mette tutti in crisi.

Vorrei perciò provare a pormi nuove domande, però, ecco, è una cosa nuova nuova. Vedremo.

Come alla fine di ogni chiacchierata con una mia autrice o autore, ti chiedo qual è la promessa che fai a te stessa e ai lettori del futuro.

Non saprei, forse quella di continuare a scrivere prendendo sul serio la società e la cultura in cui viviamo. Prendere sul serio significa anche criticare, guardare e mettersi in discussione. Non vorrei mai scrivere un manifesto ma continuare a creare opere fortemente ambivalenti, che spero aiutino chi mi legge a rimanere in uno stato di dubbio rispetto a se stessi. 

Questo mi sembra il modo migliore per poter andare avanti e produrre cambiamenti reali.


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